Uno dei più antichi e diffusi riti agresti delle campagne romagnole di un tempo era lóm a mêrz, i lumi di marzo, che ancora qualcuno pratica accendendo un falò nei campi l’ultima sera di febbraio. Fino a mezzo secolo fa invece il rito dei lumi di marzo, che segnava il passaggio dalla cattiva alla buona stagione, si svolgeva nelle ultime tre sere di febbraio e nelle prime tre di marzo. Dopo l’imbrunire, in ogni podere, i contadini accendevano grandi fuochi nei campi così che la pianura romagnola, tutta punteggiata di luci, appariva come un cielo rivoltato. Attorno ai fuochi saltellavano i bambini cantando strofette propiziatorie che variavano da località a località. Tra le più diffuse si ricorda:
“Lóm a mêrz, lóm a mêrz / ogni spiga fèza un bêrch, / un bêrch, un
barcaröl / ogni spiga un quartaröl, / un bêrch, ôna barchetta,/ ogni spiga
ôna maletta” (Lume a marzo, lume a marzo, / ogni spiga produca
una bica, / una bica, una bichetta / ogni spiga un piccolo sacco).
Il falò, il girotondo dei bambini e il canto erano volti a propiziare un buon raccolto in virtù del potere del fuoco capace, da una parte, di purificare eliminando tutte le negatività della passata stagione e, dall’altra parte, favorire la ripresa vegetativa ed un buon raccolto grazie al suo potere fertilizzante. Per questo, una volta spento il fuoco, i bambini ne disperdevano simbolicamente i resti nei campi. I fuochi dei lumi di marzo avevano anche il potere, per il principio della magia imitativa, di favorire il ritorno della luce e del calore del sole che però, già vigoroso, poteva provocare danni.
Per evitarli il primo giorno di marzo i contadini romagnoli esponevano al sole il sedere nudo recitando: “Sol d’mêrz, cusum e’ cul e non cusme ètar” (Sole di marzo, cuocimi il sedere e non cuocermi altro). Tanto quella era “carne matta” cioè di poco conto. Che col primo marzo si entrasse nella buona stagione lo testimoniava anche la cessazione di scaldare il letto con il “prete” e dell’uso delle scarpe, come sentenziava la saggezza popolare: Mêrz da e’ pè schêlz (Marzo dal piede scalzo).
Come tutti i periodi di passaggio del tempo anche gli ultimi tre giorni di febbraio e i primi tre di marzo vedevano contrapporsi in lotta il passato e il futuro, il male e il bene, con il primo che prima di lasciare il campo voleva farsi sentire per un’ultima volta con un influsso misterioso e malefico, detto la canuciéra, che richiama la rocca da filare, simbolo del passare del tempo.
L’influsso negativo si verificava in modo non prevedibile nè avvertibile in qualsiasi momento dei sei giorni – detti per questo i dè dla canuciéra – e aveva il potere di far seccare le viti potate o vangate in tale momento. E, in ogni caso, avrebbe provocato una cattiva riuscita di ogni altro lavoro intrapreso talché i contadini nei sei giorni a cavallo tra febbraio e marzo si astenevano da ogni opera nei campi.
E ancor oggi in Romagna, se qualcuno commette un errore nel lavoro, si sente apostrofare con: “Te fat ôna canòcia.